Una serata di gala per aiutare il Burundi

Una serata di gala con Artisti di fama nazionale ed internazionale al Teatro Massimo di Palermo per dare una mano alla popolazione del Burundi.

La grande macchina della solidarietà è stata messa in moto da Totó Cuffaro che, per il Burundi, nutre un debole. Si sa poco, per il momento, su questa iniziativa di beneficienza che si terrà a Palermo il 15 ottobre con un cast di artisti di primissimo piano. Sono talmente tante le richieste che gli organizzatori hanno non poche difficoltà per accontentare tutti gli artisti che si stanno mobilizzando per la serata

Scopo dell’evento è quello di creare un “ponte” di solidarietà fra l’Italia ed il Burundi, un grande “contenitore” che vede insieme le migliori risorse umane, un “supporto” non solo economico per dare una mano concreta a questa terra lontana. Tutti insieme per il Burundi, è questo il leitmotiv che anima artisti che rinunciano al proprio cache, imprenditori che incalzano per sponsorizzare l’evento, benefattori che non vogliono perdere l’occasione per rendersi utili allo scopo, gente comune che vuole dare il proprio contributo. Mai visto tanto interesse per un Galà di Beneficienza, forse è la “magia” dell’Africa che ci avvolge è coinvolge.

Una Serata di Gala, quindi, per raccogliere fondi per il Burundi, uno dei Paesi più poveri al mondo, sotto l’aspetto economico, ma ricchissimo sotto tanti altri – ci racconta chi lo conosce -. È il Paese dei controsensi dove il progresso stenta ad arrivare, dove tutto è difficile ma, allo stesso tempo, è possibile, proprio come l’iniziativa di beneficienza che mira appunto a rendere fattibile ció che da secoli non lo è stato; come: il pompaggio e la distribuzione dell’acqua, l’avvio dell’agricoltura su terre fertili che permettono di fare  anche 3 raccolti l’anno, ripopolare la fauna con animali da allevamento (ovini, bovini, caprino, ecc.), costruire infrastrutture (ospedali, scuole, centri di aggregazione, ecc.).

Il Burundi chiama, ha bisogno di aiuto… rispondere deve essere un dovere

Come si fa a dire no!

L’Africa affascina, ammalia… contagia (nel senso buono della parola). La letteratura trabocca di storie di gente comune, e non, a cui questo Continente ha cambiato la vita. Fra questi, l’ex Governatore della Sicilia, già senatore, Totó Cuffaro. Per parlare di questa esperienza abbiamo pubblicato qui di seguito un articolo comparso recentemente su http://www.qtsicilia.it di cui vi proponiamo la lettura.

Alberto Di Paola

 

Totò Cuffaro vive due volte e oggi sta con gli ultimi in una terra

Tra il Ruanda, il Congo e la Tanzania c’è il Burundi. E lì c’è Totò. Fa il missionario in Africa – dove tutto è difficile «ma tutto è possibile» – dove c’è il Tanganika, (un lago grande quanto il Tirreno, ma non ci sono pompe per poi innaffiare i campi). La fame è così tanta, lì – tra il Ruanda, il Congo e la Tanzania – che il grano non lo seminano. Se lo mangiano. «E così», dice Totò, «ho capito che per ogni chicco, bisogna portargli anche un agronomo».

Magnifica la pagina di Luca Telese su Totò Cuffaro. L’ex presidente della Regione siciliana – ex detenuto a Rebibbia dove ha scontato una condanna per associazione mafiosa – racconta la sua vita nova al fianco dei poveri più poveri. Totò che vive due volte sta con gli ultimi in una terra dove si sono mangiati tutto «e sono rimasti i coccodrilli e gli ippopotami». E Totò che sorrideva sempre, quando era un potente, ancora di più sorride oggi che nulla può più fare a eccezione del Bene maiuscolo che fa davvero. Non imbianca i sepolcri, Totò, fa il medico e riesce a trovare risposta all’interrogativo della pietas: «Dare una pasticca intera di chinino a un anziano o dividerla in due e così aiutare due bambini?».

Pietrangelo Buttafuoco.

 

 

 

 

 

L’intervista di Luca Telese:

Onorevole Cuffaro, dove si trova adesso?
«A Bujumbura, in Burundi. Ma sto per tornare a casa. In questo periodo vado e vengo dall’Italia, passo sei mesi in Africa e sei in Sicilia».

Dieci anni fa lei era governatore della Sicilia. Sette anni fa senatore della Repubblica. Tre anni fa si trovava a Rebibbia, per scontare una condanna per concorso esterno in as­sociazione mafiosa.«Vero. Può sembrare un percorso originale e drammatico. Ma, a conti fatti, oggi ne sono quasi felice».

Addirittura?«Se tutto questo non fosse accaduto, oggi non sarei in Africa a fare volontariato. Da cattolico devo dire grazie alla Provvidenza».

Lei gestisce un’associazione di solidarietà.«Ho iniziato a lavorare in Burundi perché qui avevano costruito – ai tempi in cui ero governatore – una piccola struttura sanitaria».

E qui è tornato quando ha finito di scontare la sua pena.«È una cosa che avevo deciso durante i giorni passati in cella. Sono ripartito da questa periferia del mondo: adesso gestiamo la più grande struttura ospedaliera di questo Paese. Che poi è anche l’unica».

Perché proprio in Burundi?«Perché è uno dei Paesi più poveri del pianeta. Ci troviamo tra il Ruanda, il Congo e la Tanzania».

Un Paese che ha sofferto enormemente.«Ci sono stati 25 anni di guerra etnica tra hutu e tutsi. Guerra tribale e genocida, combattuta a colpi di machete. È stato un flagello, poi sono riusciti ad arrivare alla pacificazione».

Restano cicatrici profonde, però.«Sa che non ci sono più animali? Sono rimasti i coccodrilli e gli ippopotami, perché in qualche modo considerati in­toccabili. Per il resto si sono mangiati tutto».

Incredibile.«Con i nostri pochi stru­menti economici stiamo pro­vando a rifaunizzare. Portiamo qualche capo con i container dei rifornimenti».

Come arrivano?«Li spediamo dall’Italia. Fanno il giro del mondo pas­sando dalla Tanzania. Avevamo portato anche grano per la semina ma…».

Ma?«La prima volta che lo ab­biamo distribuito, se lo sono mangiato».

Senza seminarlo?«Sì, su tutto ha prevalso la fame».

Terribile.«Abbiamo imparato da questa esperienza che, per piantare un seme in Africa, devi portare un chicco e un agronomo. È un fatto di cultura».

Difficile coltivare?«Al contrario. C’è un terreno fertilissimo in Burundi. Riescono a fare anche tre produzioni sullo stesso terreno in solo un anno. In Africa tutto è difficile ma tutto è possibile».

E l’acqua?«È un altro paradosso di questo Paese».

In che senso?«Hanno una delle più gran­di risorse di acqua dolce dell’Africa perché il confine di questo paese è il Tanganika, un lago grande quanto il Mar Tirreno. Ma non riesco a portarla in paese perché si trovano su un altopiano e non hanno pompe, tecnologia ed energia elettrica».

Industrie?«Da quest’anno ce n’è una in più, piccolina, che abbiamo portato noi».

Voi dell’associazione?«Sì, proprio noi: è la linea di produzione di una fabbrica tessile dismessa di Mazzarino. In Italia è obsoleta: qui farà lavorare trenta quaranta persone. Si può fare tantissimo con quello che per noi è poco».

Mi faccia un altro esempio.«L’adozione a distanza: con 100 euro nella nostra parrocchia si vive, si sfama e si veste un bambino per un anno».

E la sanità?«Le faccio un esempio. Avevo chiesto aiuto a un’Asl italiana per riparare una tac, l’unica di tutto il Burundi».

Ci siete riusciti?«Meglio. Quando ho mandato le foto, i dirigenti mi hanno risposto: “Te ne mandiamo una che rispetto a quella è nuova”. Sta già lavorando egregiamente; in Italia sarebbe un rottame».

Immagino che il livello di assistenza sanitaria sia basso.«Le dico solo questo: è un Paese così povero che qui non ci sono nemmeno i cinesi, i nuovi colonizzatori che trova in tutta l’Africa».

Ad esempio?«In Congo tutta l’edilizia è in mano ai cinesi».

C’è una strategia?«Sì, molto semplice: occupano tutti gli spazi che riescono a occupare. È una nuova forma di colonialismo: si muovono senza eserciti, puntano al controllo delle risorse».

Mi racconti una cosa che l’ha scioccata.«Fare il medico ogni giorno. Il primo problema che devi porti qui è se dare una pasticca intera di chinino a un anziano, 0 se dividerla in due e aiutare due bambini».

Cosa l’ha colpita di più?«Scoprire come funziona un Paese con due milioni di orfani».

Figli di vittime di guerra?«No. In Burundi le donne concepiscono un figlio ogni nove mesi dai 14 anni di età, finché spesso, al nono o al decimo muoiono, quasi sempre per un parto sbagliato».

E il marito?«Spesso muore pure lui prima dei 50 anni. In una settimana ho fatto 190 parti».

Ma lei non è un ginecologo!«Siccome non esiste servizio sanitario, le donne del Burundi fanno da sole, tagliando il cordone ombelicale a morsi. Una piccola sutura le aiuta molto».

Dicono: in realtà sono ricchi, arrivano con i cellulari.«Non certo da qui. Nemmeno esiste il cellulare, in Burundi, a parte pochi privilegiati».

Lei è lì per espiare?«Ero convinto di portare speranza, ma sono loro che la danno a me».

E i bambini senza genitori come fanno a sopravvivere?«Al terzo anno di vita li mettono fuori dagli orfanotrofi. È stata una delle prime figuracce da “occidentale” che ho fatto. Parlando con un ministro gli faccio: “È inumano”».

E lui?«Mi risponde: “Se non mettiamo fuori dalla porta quelli di tre anni, non abbiamo possibilità di salvare quelli appena nati. I grandi almeno possono sopravvivere da soli”».

E come è possibile?«Con un po’ di solidarietà tribale. E lavorando».

Lavorano a tre anni?«Portano l’acqua, tagliano la legna, intrecciano la paglia. Si guadagnano cibo e alloggio. Oppure pescano le rane, e se le mangiano».

Spesso lei va anche nelle province lontane dalla capitale«Talvolta, ad aiutare i Batua, tribù di pigmei, che sono stati messi in crisi dalla modernizzazione».

Da cosa in particolare?«Dalla plastica. Erano specializzati nella produzione di stoviglie, brocche, piatti, bicchieri».

E cosa è accaduto?«Il commercio è crollato perché i prodotti in plastica costano meno».

Come vivono?«Venti persone in una ca­panna di venti metri quadrati. Non esiste acqua corrente. Ovvio che la cosa che più desidera una madre è che suo figlio scappi».

Dal Burundi abbiamo po­chissimi arrivi in Italia…«Gli viene difficile scappare, per via dei confini naturali».

Cosa pensa degli sbarchi?«Il nodo visto da qui è diverso. Mi sono indignato per il fermo della nave a Catania».

Perché?«La Sicilia è un porto aperto da tremila anni. Chiuderlo è insensato».

Come si rallentano i flussi?«Molti di loro resterebbero volentieri se avessero una speranza. Ma preferiscono mettere i figli allo sbaraglio perché non ne hanno».

Sapendo che rischiano di morire?«Sperano che i loro figli abbiano anche solo la pos­sibilità di una vita migliore. Eravamo immigrati anche noi e avevamo le stesse speranze. Ce ne siamo dimenticati».

Esiste una borghesia in Burundi?«Sì, ed è di una umanità più grande della nostra. Chi ha studiato qui vuole cambiare il mondo».

Ha un rimpianto?«Potremmo fare di più in termini di aiuti. Con 200.000 euro in un anno abbiamo fatto moltissimo».

E la politica?«Hanno un presidente della Repubblica eletto direttamente che con una riforma ha prolungato il suo mandato».

Mi ricorda qualcosa.«Questo è un Paese in movimento. In senso letterale. Camminano tutti. La domenica fanno 40 chilometri per andare a messa».

Ha altri progetti?«Raccogliere più soldi. Il 15 ottobre organizzerò un galà a Palermo per finanziare questi progetti, invitando la più grande cantante del Paese».

Mi racconti una cosa bella.«Non c’è delinquenza. E non solo perché non c’è nulla da rubare. Se sei europeo e ti vedono, ti segue uno sciame di bambini ovunque. Ma se ti cade una monetina ti inseguono per restituirtela».

Mi racconti un pericolo.«L’aggressione islamica. Vedo che si costituiscono tante moschee. Che si predica in mezzo alla rabbia. Le racconto l’immagine più spiazzante? Le magliette del Milan. Uno dei capi più diffusi».

Lei è del Milan.«E infatti ero felice. Solo dopo ho capito che questa diffusione non era dovuta alla simpatia per qualche giocatore di origine africana, ma perché lo sponsor della squadra è il Qatar, con Fly Emirates».

Le regalano?«Esatto. Quelle magliette sono diventate uno strumento di propaganda».

E alla fine cosa pensa di questa esperienza?«Che è decisiva, anche per il nostro futuro. Tutto quello che faremo in Africa, di buono o di cattivo, ci ritornerà indietro».

Luca Telese

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