Gentile direttore,

grazie per l’opportunità che mi dà di pubblicare questa mia lettera, e grazie anche a nome dell’umanità carceraria sofferente per le coraggiose posizioni del suo giornale.
Ho letto e apprezzato l’articolo di Marco Assennato al quale mi accomuna, al di là della vistosa diversità ideologica, la passione per la politica. Sento il dovere di riconoscere coerenza alla sua storia politica e di ringraziarlo per la coraggiosa presa di posizione. Pur politicamente a me da sempre avverso, ha avuto il coraggio di sostenere pubblicamente l’iniquità del perdurare di una carcerazione senza spirargli di accesso al trattamento penitenziario ordinario. È un pensiero che altri politicamente a me vicini certamente condividono ma non hanno avuto il coraggio di esternare.
Purtroppo i giudici ad oggi hanno deciso che dovrò finire la mia pena in carcere. Ancora 18 mesi di sofferenza e privazioni, il buon Dio mi aiuterà.
Vivo questo mio tempo del carcere e mi sforzo e faccio di tutto per pensarlo e renderlo buono e utile, soprattutto per gli altri, ma non riesco a considerarlo sino in fondo un tempo donato.
È un tempo che offro, ma è un’offerta scelta non per intero dalla mia volontà, ma pretesa dalla giustizia ed impostami dallo Stato.
Il dono e l’offerta che faccio sono sì positivi e sinceri, ma l’essere essi voluti non totalmente e liberamente da me non mi soddisfa.
Allora aspetto di provare questa mia capacità di dono e di offerta quando sarò libero, per poterla fortificare ed essere completamente sicuro e consapevole e soddisfatto della importanza di fare qualcosa per gli altri, e così attendo con ansia e con pazienza di potermi dedicare a chi ha più di bisogno, conscio che mi dedicherò anche alla mia anima.

È passato ed è finito il mio tempo per la “politica”, ma non quello per il lavoro e per l’impegno di volontariato e solidarietà nel sociale.
La vita deve cercare il motivo del suo senso, richiederne il bisogno, capirne il valore, saperne cogliere l’essenza, altrimenti è una non vita o quantomeno inutile.
In carcere ho imparato che la vita va accettata così come è e che la ricompensa che essa ci dà è vivere, e poter così continuare a credere, sperare ed amare.
Ho capito vivendolo che il carcere non è storie di corpi, ma è soprattutto storie di anime.
Se questo lo percepisse l’opinione pubblica e lo capisse lo Stato e si comportassero di conseguenza, le condizioni delle persone detenute certamente se ne gioverebbero, si riuscirebbe a salvaguardare la dignità dell’uomo detenuto, ne trarrebbero un beneficio le famiglie dei ristretti e vantaggio la società e le nostre istituzioni. Non è utopia, non è impossibile, sono fiducioso che questo nostro Paese saprà maturare questa consapevolezza, e Papa Francesco sta certamente portando un contributo straordinario di amore e di esempio.
La Ballata del carcere di Reading, magnifica opera di Oscar Wilde, è certamente una delle opere che ben descrive la vita dei reclusi e la loro disperazione.
Il grande poeta per molti anni dopo la galera e persino anche dopo la morte dovette portare il marchio infamante che gli impose la giustizia del puritanesimo Vittoriano. Prego Dio di avere migliore sorte, ci spero ma non ci credo.
Dice la Ballata: «E il lancinante rimorso e i sudori di sangue, nessuno li conosce al pari di me: perchè colui che vive più di una vita deve morire anche più di una morte».
Ed io vorrei aggiungere che nella ballata del carcere di Rebibbia, per dirla con Gabriel Garcia Marquez, ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi.
Il carcere è simile al Fenrir, che è un feroce ed enorme lupo partorito dal mito Scandinavo, famoso perché ostile e nemico del popolo e al popolo.
È creatura cattiva e portare di disgrazie.
Sempre tenuto incatenato si serve però delle sue stesse catene per palesare la sua forza e la sua ferocia.
Quando si tenta di imbrigliarlo, lui, Fenrir, il carcere, azzanna i suoi padroni.
Rabbiosa, l’orrida bestia, ulula e ringhia, e con la bava che esce dalla sua bocca si alimenta un lago, il lago “attesa”; e in attesa la bestia e il suo padrone tengono sempre le loro vittime.
I detenuti, come il Fenrir, sono carichi di rabbia, ma al contrario del Fenrir sono anche carichi di speranza, non coltivano astio ma cercano amore.
Si sentono emarginati dalla società e sentono che crolla loro addosso il mondo, ma lottano per liberarsi da ogni catena, lottano per vivere, sanno di avere solo una vita.
La battaglia è difficile, faticosa, cruda, ma non hanno alternativa, devono combatterla.
Lottare per noi detenuti vuol dire scegliere, difendere la dignità, alimentare la speranza, non consentire a Fenrir di estinguerci.
Quando un giorno si riusciranno a spezzare le catene, tutte le catene, anche quelle di Fenrir si scioglieranno e Fenrir senza le sue catene morirà.
Allora, solo allora finirà il carcere per emarginare i cattivi, lontani dai buoni, e potrà rinascere come un luogo dove vive, piange, soffre, prega e spera un pezzo della nostra società.
Allora sarà più libero il popolo e certamente più buono lo Stato.
Abbiamo il dovere di sperare e di attendere.
Ogni vita, sia laica che religiosa non può fare a meno di tre convinzioni: credere, sperare e amare.
Sono proprio queste tre determinazioni che animano la mia vita di detenuto, protagoniste veri ed entusiasti della vita che scorre, con i suoi colori, immagini, storie, realtà, fantasie, sogni, illusioni, aspettative, ansie, paure, sofferenze e fiducie.
Vita vissuta, vita che vivo, e vita che sarà ancora buona per ascoltare e capire e fare quando tornerò libero tra la gente. Vita utilizzata per le parole ascoltate e per quelle dette.
Una vita ancora buona per sorridere, per cercare il futuro, per contribuire a costruire una realtà insieme a tutti quelli che hanno voglia di vivere, amare, credere e sperare.
Il carcere è un baratro profondo di miserie e di bisogni.
Ho finito di scrivere il mio secondo libro in carcere, Le carezze della nenia, è già nelle librerie, racconto del carcere e delle persone che lo vivono.
Mi serve scrivere, scrivendo parlo a me stesso e mi rivolgo alla mia memoria per vedere ed avere quello che il carcere mi vieta e mi impedisce.
Non serve invece dividere il tempo, tanto deve passare tutto intero. Non serve neanche mischiare il tempo attuale col tempo remoto e con quello futuro, se non a ricordare e a provocare dolore.
Serve invece uscire dal carcere e conservare lo stesso stupore col quale sono entrato.
*Detenuto nel carcere di Rebibbia

fonte: www.ilgarantista.it