Mafia, al Maxiprocesso, parla il pentito Giuffrè: “L’ex boss Totò Riina contava su Andreotti e Lima”

Per evitare gli ergastoli, la mafia chiedeva un ''ammorbidimento presso gli ambienti politici''. Riina contava su ''canali della Democrazia Cristiana''

toto-riina-mafia-cosanostra-dietro-le-sbarre-marsala-sicilia-cronaca-giudiziaria-news-marsalanewsLa morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino? Il pentito Antonino Giuffrè, detto Manuzza, lo spiegò con un proverbio in dialetto siciliano durante le indagini preliminari e l’ha ribadito oggi nell’aula bunker in via Ucelli di Nemi a Milano, davanti ai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta, in trasferta nel capoluogo lombardo per il processo ‘Capaci bis’. «Tanti pizzicuna fannu i carni nivuri». Tradotto: tanti pizzicotti fanno la carne nera di lividi.

Pizzicotti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a Totò Riina, con le loro inchieste, ne avevano dati troppi e la goccia che fece traboccare il vaso fu il maxi-processo. Per questo, ha ricordato Giuffrè, ci fu quella riunione nel ’91 della commissione provinciale di Palermo in cui l’allora boss dei boss disse che «ognuno doveva assumersi le sue responsabilità». E per i due magistrati fu solo questione di tempo.

Giuffrè racconta di un Falcone progressivamente «isolato e poi ucciso». «La delegittimazione avvenne anche, non dico in tutta la magistratura, perché direi una sciocchezza, ma in parte di questa, a Palermo», ha detto nascosto da un paravento rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Lia Sava e ha ricordato un «rapporto di tensione tra l’allora Procuratore della Repubblica e Falcone stesso».

«A volte per invidia, rancore, gelosia – ha spiegato il pentito – piano piano, Falcone è stato isolato e poi ucciso». Il maxiprocesso era un’ossessione per Riina e la mafia contava di evitare gli ergastoli operando un «ammorbidimento presso gli ambienti politici». L’allora capo mafioso confidava in «canali della Democrazia Cristiana».

In Sicilia «noi avevamo Salvo Lima, che era in stretto rapporto con Roma e quando dico Roma intendo Andreotti», ha detto Manuzza. Non sa Giuffrè di tentativi di inquinamento di servizi segreti o di apparati dello Stato sulle indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio, nè conosce nel dettaglio come fu eseguita la mattanza in cui morì Falcone: tutto era rigorosamente compartimentato tra i vari mandamenti.

Tra l’altro, Manuzza, ha raccontato di essere stato arrestato nel marzo del ’92. Era nel reparto dei detenuti comuni e quando si seppe della strage, questi «erano contenti e ci furono anche dei brindisi». E i detenuti di mafia come si comportarono?, gli ha chiesto il procuratore aggiunto Sava. «Se erano contenti i detenuti comuni…», è stata la risposta. Se Giuffrè dice di non sapere nulla di come fu organizzato nel dettaglio l’attentato del 23 maggio del ’92, un contributo più sostanziale per chiarire questo aspetto verrà domani da Gaspare Spatuzza, a cui si devono le indagini che hanno portato a questo secondo processo per la strage di Capaci.

Sarà lui, che solo ieri ha confessato 40 omicidi nel dibattimento per la Strage di via Palestro a Milano, a raccontare come fu recuperato l’esplosivo in mare, come fu lavorato e poi posizionato per stroncare la vita di Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta.

CATEGORIE
TAG
Condividi

Commenti

Wordpress (0)
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: