PALERMO – C’è un tesoro di valore inestimabile nascosto a lungo in Svizzera che fra poche settimane sarà ufficialmente restituito all’Italia con tanto di presentazione. Lo avevano scovato, nel 2001, i Carabineri del Nucleo tutela patrimonio culturale (Tpc) dopo anni di indagini, seguendo le labili tracce che partivano dalla Sicilia nord occidentale, da Castelvetrano, comune in provincia di Trapani. Territorio dove si trova il parco archeologico più grande d’Europa,Selinunte, e non lontano, verso Mazara del Vallo, il tratto di mare più ricco di relitti e opere d’arte inabissate. Lì è passata la storia, a bordo di navi cariche di bottini di guerra strappati dai romani alla distrutta Cartagine, o di tesori depredati dai barbari con la caduta dell’Impero romano.

In questo scenario si muovono conoscitori, amanti dell’arte e tombaroli, invischiati nel traffico di reperti archeologici, armi e droga. Un intreccio di interessi che vale miliardi di euro: quello dell’arte è il quarto mercato più redditizio del crimine internazionale. A volte sostituisce persino la classica bustarella come tangente per accaparrarsi appalti e lavori. Un filo invisibile si dipana in quest’area della Sicilia, una linea sottile che sembrerebbe unire il super latitante Matteo Messina Denaro a Giuseppe Fontana (oggi detenuto), a insospettabili antiquari, uomini d’affari, alcuni curatori dei maggiori musei d’arte del mondo. Fra questi spunta, sulla base di un’indagine in corso da parte dei carabinieri, anche il nome di Gianfranco Becchina, noto mercante d’arte di Castelvetrano e oggi proprietario di due cementifici e dell’etichetta “Olio Verde”, con cui commercializza l’extra vergine che produce nelle sue campagne. Considerato dalle forze dell’ordine un personaggio importante nel traffico di opere d’arte, mai condannato perché – come spiega il maggiore dei carabinieri Antonio Coppola – “il suo reato è finito in prescrizione”.

Il dossier dell’Fbi. A Becchina sono stati confiscati, dopo una lunga querelle con la Svizzera, i cinque magazzini stracolmi di opere d’arte. Veri e propri scrigni dove erano custoditi 5mila reperti archeologici, tesori dal valore inestimabile. Molti, sempre secondo i carabinieri Tpc, “provenivano da scavi clandestini e adesso potranno finalmente rientrare in Italia”. Questo patrimonio unico poteva contare, come quartier generale, sulla Galleria Palladio Antique Kunstdi Basilea, il cui proprietario era proprio Gianfranco Becchina. Ma c’è di più: nei cinque magazzini è stato trovato un gigantesco archivio, quello che l’Fbi chiamava il “Becchina dossier”, di cui  i carabinieri sono finalmente entrati in possesso.

Con più di 13mila documenti, fatture, trasporti, lettere indirizzate agli acquirenti, migliaia di immagini polaroid, suddivise in 140 raccoglitori, questa enorme e dettagliata documentazione sembrerebbe ridisegnare alcuni dei passaggi più controversi della storia del commercio illegale delle opere d’arte. Lì, secondo gli inquirenti, Becchina annotava tutto, compreso il salario di un tombarolo tra i più conosciuti in Puglia, che lavorava alle sue dipendenze. A lui venivano fatturati, sotto la voce “pulizia monete”, 15mila euro ogni 12 mesi. Nel registro si legge anche dei 25 crateri apuli posseduti da un ingegnere palermitano, di cui Becchina mandò le foto al museo di Princeton, nel New Jersey, assicurando che provenivano “da una raccolta privata svizzera”. “Nel dossier Becchina risultano molti più oggetti fotografati e registrati, rispetto a quelli trovati nei depositi – spiegano ancora al Nucleo tutela patrimonio culturale – Ciò significa che sono ancora tante le opere che devono essere ritrovate”.

Chi è Gianfranco Becchina? Lui si definisce così: “Un mecenate, un collezionista, estraneo a ogni tipo di vendita illegale di oggetti d’arte. Prima, su di me, indagò Paolo Borsellino, dopo la sua uccisione, il procuratore Gian Carlo Caselli, fu un’indagine sprecata, soldi dello Stato gettati al vento, ho smesso di essere un mercante d’arte dal 1994, e nel 1996 mi sono anche cancellato dal registro dei commercianti”. Conosciuto da tutti a Castelvetrano, Becchina è proprietario di diversi edifici di grande interesse storico e artistico, come il Palazzo ducale dei principi Pigantelli Aragona Cortes Tagliavia. Situato nel cuore del centro storico di Castelvetrano, il palazzo era in realtà l’antico castello “Bellumvider” realizzato nel 1239 per accogliere Federico II. Becchina è pure in possesso di un bellissimo feudo dove oggi vive, a suo tempo appannaggio, anche questo, dei principi Pignatelli Cortes. Un parco di 25 ettari non lontano dai templi greci dell’area archeologica di Selinunte, con tremila ulivi dai quali produce il suo olio. “Non è un olio qualsiasi – spiega l’archeologoTsao Cevoli, presidente dell’Osservatorio internazionale archeomafie e direttore del master in Archeologia Giudiziaria e Crimini contro il Patrimonio Culturale – Con il suo olio hanno condito l’insalata Clinton e Bush, perché è accreditato nientedimeno che come fornitore della Casa Bianca. Inoltre ha due grosse aziende produttrici di cemento: la Heracles in Grecia e la Atlas srl in Sicilia”.

Affari con tutto il mondo. “Ma Becchina ha trattato affari con i maggiori musei del mondo, tra cui il Louvre, il Museo di Monaco, il Metropolitan di New York, il museo di Boston, il Ninagawa di Hurashiki in Giappone, l’Ashmolean di Oxford, il museo di Utrecht, il Museo di Toledo nell’Ohio e molti altri – dice ancora l’archeologo Cevoli – E ha rifornito persino università prestigiose come la Columbia, quella di Washington, di Kassel, di Princeton e di Yale. Tra le sue vendite più celebri c’è il Cratere di Asteas, pagato 500mila dollari e dopo molti anni tornato in Italia. Fu scavato nel 1974 a Sant’Agata dei Goti, in Campania. Le indagini partirono da una foto del reperto trovata sull’auto di un ex ufficiale della Finanza passato con i trafficanti, morto misteriosamente sull’Autostrada del Sole nel 1995. Tra i suoi acquirenti figurano anche i coniugi Shelby White e Leon Levy, miliardari americani ai quali è intitolata un’ala greco-romana del Metropolitan Museum, finanziata con 20 milioni di dollari. White e Levy hanno pure sovvenzionato con milioni di dollari diverse università, tra cui Cambridge, Harvard e Princeton. La loro enorme collezione privata di antichità è in gran parte frutto di scavi clandestini, come ha dimostrato il libro-inchiesta di Peter Watson e Cecilia Todeschini“.

L’ombra del boss. Dietro molti saccheggi, affari, traffici d’arte, si intravede l’ombra di Matteo Messina Denaro. Il super latitante che ama l’arte, come rivelano alcuni pizzini in cui sostiene che con il traffico d’opere “ci manteneva la famiglia”. Proprio lui aveva ordinato di rubare il Satiro Danzante, operazione caduta nel vuoto a causa dell’arresto di due boss committenti, i fratelli Giacomo e Tommaso Amato, e la morte del terzo, detto “il Gangitano”. Questa passione per l’arte il capo di cosa nostra l’avrebbe ereditata dal padre: Francesco Messina Denaro, uno dei primi tombaroli del Parco Archeologico di Selinunte. Preziosi reperti archeologici furono da lui depredati in quel sito o nelle Cave di Cusa, a Campobello di Mazara. Tesori di cui si sono perse le tracce, esportati in Svizzera per essere poi rivenduti, come un’anfora d’oro dal valore di un miliardo e mezzo di vecchie lire. Nella rete era coinvolto persino un collezionista sacerdote, che avrebbe poi garantito la latitanza del vecchio boss.

La scomparsa di “u pupu”. Fu sempre Francesco Messina Denaro, a organizzare il furto dell’Efebo di Selinunte, nel 1962. La piccola statua greca (alta circa 85 centimetri) era detta “u pupu” e tenuta sul tavolo dell’ufficio del sindaco di Castelvetrano. Una volta trafugata per essere venduta, venne portata in America, poi in Svizzera, infine tornò di nuovo in Sicilia quando si capì che nessuno l’avrebbe acquistata. Al Comune di Castelvetrano giunse allora una richiesta di riscatto di 30 milioni di lire, che nessuno pagò. Il 14 marzo del 1968 l’Efebo venne recuperato dalla polizia a Foligno, in Umbria.

L’anarchico. Fra gli amici intenditori d’arte di Matteo Messina Denaro, c’è Giuseppe Fontana, “un anarchico”, come si autodefinisce, finito in carcere nel 1994 per traffico di stupefacenti, di armi, e associazione mafiosa. Nel 1988 Fontana, come il “Bancario anarchico” di Pessoa, conduceva una vita da nababbo. In Svizzera possedeva un deposito “con una partita di pezzi d’antiquariato che ingiustamente i poliziotti mi sequestrarono”, come scrive in una lunga lettera firmandosi “Prigioniero di Stato”. Era lui a viaggiare continuamente dalla Svizzera, alla Yugoslavia con il suo bottino di reperti archeologici trovati negli scavi di frodo commissionati dalla mafia. Ma Fontana aveva anche un’altra missione: rifornire Castelvetrano con armi di ogni genere, per arricchire l’arsenale di Matteo Messina Denaro. Il boss che nel ’93, l’anno delle bombe, aveva scelto sui manuali di storia dell’arte i monumenti da far saltare per aria a Roma, Milano, Firenze. Perché nulla, in quegli attentati, venisse lasciato al caso.

Sicilia, l’isola dei predatori 

di VALERIA FERRANTE

PALERMO – Con il più alto tasso di scavi clandestini accertati, è la Sicilia la regione d’Italia maggiormente razziata. Secondo il rapporto 2013 stilato dai carabinieri ci sono stati il 32 per cento di scavi in più rispetto al 2012. “Le zone maggiormente a rischio – dice Luigi Mancuso capitano dei carabinieri Tpc Palermo – sono la parte centrale e quella occidentale dell’Isola. L’attività investigativa del 2013 ha permesso di sequestrare 7.858 reperti archeologici per un ammontare stimato in oltre 2 milioni di euro. Tra i reperti sequestrati – spiega Mancuso – ci sono vasi, crateri di epoca greco-romana (V e VI sececolo avanti Cristo); 500 monete bizantine, greche e romane; vari elementi metallici (fibule-punte di freccia) per un valore complessivo di oltre 300mila euro. Inoltre una rarissima moneta antica, un tetradracma del maestro incisore Eukleidas (attivo tra il 413 ed il 399 avanti Cristo), illecitamente detenuta da un privato collezionista che stava tentando di venderla via web”.

Selinunte, il supermarket dei tombaroli

di VALERIA FERRANTE
PALERMO – “Per i Beni Culturali, gli scavi clandestini rimangono la maggiore forma di aggressione: in Sicilia come in Italia – spiegano i carabinieri del Tpc – Il problema principale risiede nella scarsa vigilanza nei confronti di un patrimonio ricchissimo e soprattutto vastissimo”. Oggi, per esempio, come si presenta agli occhi di un visitatore il Parco Archeologico di Selinunte?Incuria, discariche di rifiuti, quasi nessun controllo, una recinzione valicabile e semi distrutta. Con la nostra telecamera abbiamo filmato la deriva dell’area archeologica più grande d’Europa (come si legge nella home page del Parco). 270 ettari di un antico passato riemerso dalla terra con le sue necropoli, i suoi templi, le mura, le torri, una grande acropoli a strapiombo sul mare. Questa zona dal 1960 è stata continuamente predata dai tombaroli, gente comune, pescatori, abitanti dei paesi vicini, che conoscevano bene i tesori nascosti nel sottosuolo e che con essi per anni hanno arrotondato i loro redditi. “Un castigo di Dio”, li definì Vincenzo Tusa, soprintendente ai Beni Culturali della Sicilia occidentale dal 1963, che però come soluzione al problema pensò bene di assumerli: “Andai dal presidente del Banco di Sicilia, che era Carlo Bazan, e gli chiesi i soldi per assumerli. Lui mi promise tre milioni di lire di allora. Il venerdì seguente, di primo mattino, vidi una dozzina di tombaroli clandestini che tornavano dagli scavi. Dissi che sarebbero stati tutti assunti a partire dal lunedì successivo e così fu”.

Qualcosa è cambiato. “Non mi risulta alcun furto da quando sono direttore del Parco Archeologico – dice Giovanni Leto Barone – né mi pare vi sia una situazione di incuria, di immondizie. Il Parco è interamente protetto da una recinzione, e a guardia, nei luoghi più strategici, sono dislocati 70 custodi. In realtà avremmo bisogno di 120 sorveglianti, ma le nostre risorse economiche attualmente non ce lo permettono”. In prossimità della costa, lungo la spiaggia di Marinella di Selinunte, la recinzione del Parco non esiste affatto. In parte è completamente distrutta. In parte è stata inghiottita dalle dune di sabbia. Chiunque da lì può accedere all’area archeologica, e di custodi non se ne vede nemmeno l’ombra. Non si vede nessuno neppure nella zona di accesso all’acropoli, dove un cartello abbattuto avverte i visitatori che prima di entrare “bisogna esibire il biglietto”. E così un gruppo di turisti inglesi un po’ frastornati entra lanciando un’occhiata alla guardiola assolutamente vuota.

Autonomia. “Dall’aprile 2013 il parco di Selinunte è diventato autonomo – spiega ancora il direttore Giovanni Leto Barone – È stato nominato un comitato scientifico, composto da me, dai sindaci di Castelvetrano e Campobello di Mazara, dal soprintendente di Trapani Paola Misuraca, da Maurizio Carta, ordinario di urbanistica del Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo, dall’architetto Giuseppe Saluzzo, rappresentante Legambiente, e dal dottor Nicolò Miceli del club Unesco di Castelvetrano. Attraverso un bilancio e un programma di attività che stiamo producendo, dovremmo gestire direttamente i proventi ottenuti con la vendita dei biglietti. Tutto questo a partire, speriamo, dal 2015”. Qual è il bilancio del Parco? “Nel 2013 abbiamo incassato 870mila euro – dice con un certo orgoglio il direttore – in tutto abbiamo avuto 260mila visitatori. Per l’anno corrente si registra già un trend positivo di crescita del 5-6 per cento”.

Finanziamento europeo. Ma i progetti che coinvolgeranno l’area archeologica di Selinunte sono tanti. Grazie a un finanziamento europeo  di 2 milioni 850mila euro, si stanno ristrutturando e consolidando i templi, fra tutti quello C, che è a rischio crollo: “Le malte erano ammalorate – continua il direttore – e c’era un reale problema di sicurezza per i visitatori. Il Baglio Florio diverrà un museo, mentre nella collina orientale, in prossimità del tempio G, sarà costruito un teatro da 600 posti, con una struttura di metallo e vetro. Verrà poggiato sul suolo archeologico ma ci siamo preoccupati che fosse rimovibile in caso si dovesse avviare una campagna di scavi”.

Storia di Mario, tombarolo per necessità

di VALERIA TEODONIO

GROSSETO – All’alba Mario è già sui campi. Deve potare la vigna, sistemare il trattore, seminare il grano. Mario (il nome è di fantasia) ha occhi scuri e braccia forti. Le mani callose e un sorriso buono. Da 30 anni fa il contadino nella sua Maremma. E fino a poco tempo fa la terra dava da mangiare a lui e alla sua famiglia. Oggi non ce la fa più. Così, quando un suo amico gli propone un lavoretto, accetta. Lo deve aiutare a scavare, di notte. Lo deve aiutare a profanare sepolcri etruschi vecchi di 2500 anni. Mario è diventato un tombarolo. Tombarolo per arrivare a fine mese.

L’epoca d’oro. Mario non è il solo. I nuovi saccheggiatori di tesori sepolti sono quasi tutti agricoltori, allevatori. E sono in aumento. Anche se sono ancora molti meno di quelli che depredavano l’Italia negli anni ’80 e ’90, quando il fenomeno era al suo massimo. All’epoca si spostavano in “batteria”: quattro o cinque squadre formate da 12-15 persone. Il mercato era fiorente, c’erano compratori dall’Europa e dagli Stati Uniti: collezionisti privati, ma anche grandi musei. Uno scempio stroncato da carabinieri e Guardia di finanza all’inizio degli anni Duemila.

In ripresa. Ma oggi il fenomeno è di nuovo in ripresa. I tombaroli figli della crisi, però, non sono più professionisti organizzati, ma persone comuni, che agiscono in piccoli gruppi. Prendono tutto quello che possono e lo svendono al primo acquirente. Così, quello che vent’anni fa sul mercato nero valeva 100, oggi viene pagato 30. In Italia le regioni più colpite sono Lazio, Campania, Calabria e Sicilia. Gli scavi clandestini scoperti sono stati 37 nel 2012, 49 nel 2013: un aumento del 32 per cento. E i numeri provvisori elaborati dai carabinieri del Comando tutela del patrimonio culturale parlano di un’ulteriore lieve crescita per il 2014. Ma questi numeri raccontano solo degli scavi clandestini individuati, l’ipotesi è che in realtà ce ne siano molti altri. In generale, il traffico di opere d’arte e beni archeologici è stimato, nel mondo, in sei miliardi di euro all’anno.

Alla ricerca del pezzo raro. I tombaroli scavano spesso vicino alle aree archeologiche, dove hanno più probabilità di trovare sepolcri nascosti. Portano via anfore, vasi in ceramica, spille, oggetti in bronzo. Un pezzo può valere qualche centinaia di euro, ma anche centinaia di migliaia. O anche niente. I nuovi saccheggiatori vanno a caccia di reperti anche in tombe già svuotate, operazione che in gergo si chiama “ripulitura”. Nel Lazio accade soprattutto nelle zone di Tarquinia e Cerveteri, area in cui è particolarmente severo il controllo dei carabinieri della sezione archeologica per la Tutela del patrimonio, guidati dal capitano Massimo Maresca. “Oggi ci sono anche i tombaroli della domenica – spiega Maresca – impiegati, liberi professionisti, perfino appartenenti alle forze armate che hanno la passione per l’arte e gli scavi e che, armati di metal detector, vanno a caccia. In alcune zone di Ostia basta rivoltare la terra per trovare reperti. Non servono neanche pala e piccone”. E c’è ancora tantissimo da saccheggiare: secondo il Cnr, il 70 per cento delle ricchezze sepolte è ancora lì. Ma chi viene sorpreso a scavare rischia fino a un anno di carcere. Chi si impossessa di reperti fino a tre anni.

Due anfore 300 euro. Mario torna a casa, ha gli stivali infangati, la faccia sporca di terra. Ha nascosto due anfore nel magazzino sotto casa. Domani le deve consegnare a un corriere, che le porterà all’estero. In cambio gli daranno 300 euro. Non è contento, quel lavoro non gli piace. Pensa che i morti vadano lasciati in pace. Ma ora è meglio non pensarci. E’ meglio andare a dormire. Tra due ore suona la sveglia.

I biglietti di Ostia all’azienda sotto processo

di ELIS VIETTONE
ROMA – Un parcheggio in terra battuta, i bagni semi abbandonati in un container e un piccolo chioschetto per i biglietti: è questo il primo impatto per un visitatore che arriva a Ostia scavi, uno dei cinque siti archeologici più grandi al mondo, con i suoi 88 ettari di estensione e un passato glorioso. Attraversando le sue strade nel I secolo dopo Cristo avremmo osservato gente di ogni colore e religione, assistito a spettacoli teatrali e speso giornate tra terme e biblioteche. Così era la città di Ostium (bocca del fiume): il porto che serviva la Capitale dell’impero romano.

Difficile oggi percepire questi fasti: intere aree giacciono sotto strati di terra e le parti scavate sono spesso sovrastate da radici e erbacce che ne sgretolano pareti – a volte  affrescate – e fondamenta. Un percorso che riesca a evidenziare le diverse zone della vita cittadina di un tempo non è facilmente individuabile: i cartelli non ci sono, o sono illeggibili, o senza collegamenti tra di loro. Le audioguide non sono più disponibili da oltre 2 anni nonostante siano ovunque ancora presenti i cartelli con i numeri da digitare.

Per prenotare le visite guidate bisogna mandare un fax “almeno due-tre settimane prima” – come si legge sul sito  – ma è necessario raggiungere un gruppo di 30 persone. Al costo di due euro, è tuttavia possibile comprare una piccola mappa per tentare di orientarsi. Eppure gli ingressi a questo sito sono in aumento: con 867.700 biglietti venduti, il 2013 ha registrato un incremento quasi del 20% rispetto al 2012.

Numerosi i cantieri permanenti, oltre a diverse aree chiuse al pubblico. Accanto a quello che era il Decumano Maximo si erige una transenna che alterna metallo e plastica, lunga qualche decina di metri, con due cartelli, uno che riporta la scritta “Lavori di interventi urgenti delle aree archeologiche”, e uno subito accanto, dove sono riportate le informazioni su quel cantiere: “Cifra stanziata, 500mila euro, responsabile del procedimento: dottoressa Cinzia Morelli (direttore del sito archeologico di Ostia antica, ndr), inizio lavori 24 luglio 2013″. La data di fine lavori non è presente. E non è l’unico cartello di questo genere all’interno del sito.

In tutta l’area non è stato possibile vedere un custode, anche se quelli assunti sono 49, divisi su tre turni, mentre nemmeno nelle zone principali è previsto un sistema di video sorveglianza. Raro anche incontrare giardinieri e spazzini: ci sono solo visitatori, ruderi e campagna. “Il bello di Ostia è proprio questa sintesi tra natura e archeologia”, si giustifica Cinzia Morelli, che spiega: “Le visite guidate? Ci sono, basta prenotarle. Le audioguide? In un’area così vasta non sono molto utili. Brochure più complete? Sì, si potrebbero fare. Maggior pubblicità per portare anche i romani qui? Non serve, vengono lo stesso – prosegue il direttore – Una app da scaricare? Troppo complicato, bisognerebbe dotare di una rete internet l’intero parco. Fondi europei? Purtroppo non abbiamo nessuno che se ne occupi”.

La gara d’appalto per la gestione dei servizi aggiuntivi – caffetteria, tavola calda, bookshop, parcheggio e biglietteria – (bando indetto dalla direzione regionale nel 2009, registrato dalla Sovrintendenza di Roma nel 2010), è stata vinta dal consorzio di imprese Gelmar Novamusa Lazio Scarl. Il presidente del consiglio d’amministrazione è Emilio Giannelli, che con il gruppo Giannelli gestisce anche la caffetteria del Museo nazionale di arte contemporanea e la libreria dell’Auditorium di Roma. La Novamusa invece è stata condannata nella primavera dello scorso anno della Corte dei conti (596 del 6 maggio 2014) a rimborsare 19 milioni di euro, che secondo i magistrati contabili sono stati indebitamente intascati sui biglietti di alcune delle aree archeologiche più importanti della Sicilia. Per questa vicenda nel 2012 l’allora amministratore della società, Gaetano Mercadante, aveva collezionato anche un arresto per peculato. Oggi il processo è stato spostato a Civitavecchia ed è ancora in corso.

I cimeli salvati sono trofei da esibire

di TOMASO MONTANARI
Cosa Nostra ha capito ciò che lo Stato ancora non ha capito: che il patrimonio culturale è il territorio, e che governare il patrimonio vuol dire esercitare la sovranità anche sul piano simbolico. Chi controlla le viscere della terra e i suoi tesori comanda anche sopra quella terra. Non si tratta solo di soldi, né tantomeno di cultura: è un fatto che attiene al potere e alla sua rappresentazione.
Per questo l’unico antidoto a questa ennesima eclissi di Stato è costruire più Stato. Per esempio avendo il coraggio di ripensare radicalmente la folle autonomia del patrimonio culturale siciliano: che è l’unico che non dipende dal governo nazionale, ma dalla Regione Sicilia. Un regime disastroso, che significa soprintendenti sottoposti agli assessori, tutela del territorio asservita agli interessi del cemento e giacimenti archeologici abbandonati alla piena disponibilità della mafia. Mai come in questo caso un livello decisionale lontano dal territorio e dai suoi grumi di interesse potrebbe fare la differenza.
E poi bisogna decidersi a spettacolarizzare gli importanti risultati del duro lavoro del Nucleo di Tutela del Patrimonio artistico dei Carabinieri. Perché è sacrosanto restituire i reperti recuperati ai singoli musei, o ai singoli territori: ma se poi quei reperti finiscono in deposito, condannati al silenzio, tutto questo rischia di sembrare, o perfino di essere, inutile.
In un Paese che ha deciso di conteggiare l’economia delle mafie nel Pil, è urgente far capire che nel prodotto interno lordo della democrazia quei reperti recuperati possono giocare un ruolo importante: creando lavoro, consapevolezza, dignità. Bisogna cominciare a tessere una narrazione della sconfitta di Cosa Nostra sul terreno dell’arte e dell’archeologia. Come le terre sottratte alla mafia vengono rimesse a reddito democratico, così anche il patrimonio sottratto alla mafia deve poter parlare con una lingua riconoscibile. Alla bandiera nera del Caravaggio rubato dalla mafia in una chiesa di Palermo nel 1969, e mai più recuperato, bisogna opporre un progetto in cui il patrimonio generi liberazione culturale e aumenti la qualità della vita dei cittadini.
Sarebbe importante costruire, in Sicilia, un centro di ricerca sui furti d’arte dotato di un grande museo che esponga le opere e i reperti recuperati. Bisognerebbe affidare questo centro e questo museo ad una cooperativa di giovani archeologi e storici dell’arte capaci di mettere la conoscenza e la ricerca al servizio di un progetto di cittadinanza. Una Libera dell’arte,insomma: nella quale fare l’archeologo al servizio della comunità sia più redditizio (in termini di economia, di dignità, di libertà) che fare il tombarolo al servizio di Cosa Nostra. Perché finché sarà vero il contrario la partita sarà, nonostante tutto, perduta.
fonte: http://inchieste.repubblica.it/