Sindona, l’italica imparzialità

L'italica imparzialità sindona micheleMichele Sindona – il mitico “bancarottiere di Patti” degli anni 70/80, per chi se lo ricorda – starà, come si suole dire, rigirandosi nella tomba al solo assistere alle sconvolgenti vicende che attraversano in lungo e in largo il mondo finanziario di casa nostra.

Lui, che pur privo di ascendenze e di tradizioni (Patti non è di certo la City), in quel consesso di pescecani, scalino dopo scalino, folleggiando in tutti i sancta sanctorum dell’epoca, sognava di assurgere a protagonista con intenzioni forse meno disoneste di quel che si è voluto far credere.

Ambizioni, come sappiamo, finite nel modo tragico già sperimentato alcuni decenni prima da Gaspare Pisciotta a suggello dell’epopea del Bandito di Montelepre: l’infallibile caffè corretto con cianuro in dotazione di ogni cella d’eccellenza delle patrie galere.

Una ubbriacatura di grandeur, quella di Sindona, che, se vista alla luce dell’attualità e della baraonda dominante non potrebbe che apparire come un insieme di ingenue marachelle. Roba proprio da educande.

O, alquanto verosimile, un progetto più serio di quanto si sia voluto far credere. Un qualcosa di inatteso, precursore di nuove alchimie, da vanificare sul nascere da parte di quel mondo occulto e vampiresco che non ha tollerato l’intrusione di un parvenu nel proprio Olimpo e nei propri progetti probabilmente già in cantiere. Con la conseguenza per Sindona di vedersi tarpare le ali ad ogni costo, per contrastare la sua spiccata e temuta capacità di volare alto.  

Il ricordo delle sue galoppate nel mondo della finanza globale dall’ultimo piedistallo della Franklin Bank americana, dove era approdato dopo le strepitose (per quei tempi) performance italiane, fatte di banche e scalate da brivido, gli farebbe mordere le mani nel vedersi surclassato dalle tante mezze calzette beneficiarie di quei progetti di salvezza che lui aveva inseguito invano in tutte le sacrestie del potere.

Qualche pannolino caldo, in fondo, gli sarebbe bastato per rimediare allo scivolone sulla buccia di banana della sua sconfinata fiducia nel recupero del dollaro, in quel tempo in caduta libera.

Lui credeva in quella moneta, pur sempre di solido riferimento nelle transazioni più svariate. E ci si era buttato a capofitto, immemore del monito che vuole che perdere al gioco è meno grave della caparbietà di volersi rifare.

E dire che non ci sarebbe voluto molto, mi ripeto, per salvare i suoi progetti finiti nel limbo delle “incompiute”, a confronto delle fortune oggi inghiottite senza soluzione di continuità dalla voracità della Banda toscana, da genitori, suoceri e Dulcinee varie, intanto che il paese, arroccato in stato preagonico sul terreno friabile dell’ultima spiaggia, subisce l’arraffa arraffa finale.

Gli toccò, invece, il carico da undici del povero Ambrosoli che, sull’altare della sua doverosa intransigenza (come oggi sappiamo non più in uso nella vigilanza delle malefatte bancarie), vi lasciò la vita.

Nel suo caotico arrembaggio, dunque, il finanziere d’assalto aveva evidentemente commesso il solo errore di non essersi … buttato a sinistra, come sarcasticamente suggerito dal grande Totò.

Si era illuso, il povero Sindona, che Andreotti lo avrebbe tolto dagli impicci, anche per non smentire la definizione altisonante che ne diede in un raro momento di euforia da sen fuggita: “salvatore della Lira”, infatti, l’aveva acclamato, fidandosi del fatto che in Vaticano cotanto banchiere era tenuto in alta considerazione.

E non è detto che ci fosse stata una volontà truffaldina nelle intenzioni di don Michele! Lui voleva solo cavalcare – come tanti altri che ci sono riusciti (George Soros in testa) – quel che di inedito avveniva nel macrocosmo finanziario, fatto di scambi con mezzi più virtuali che reali.

Un ingegnoso utilizzo di tecniche che, più tardi, sarebbe sfociato nell’arcano dei cosiddetti derivati alla Sarchiapone, per effetto dei quali ci leccheremo, a lungo, profonde ferite. Senza, ovviamente, averne capito un tubo del funzionamento.

Alla stregua di tutti quei tetragoni banchieri, sconsiderati apportatori di disastri, che avendone capito ancor meno hanno provocato il catastrofico naufragio; nonché degli pseudo specialisti, ben lontani, a perpetuazione del mistero, dal saperlo spiegare con parole semplici.

Similmente a quel che avviene con gli attuali finanziamenti della BCE alle banche disastrate – che tanto innocenti non sono nei confronti del debito pubblico grazie al quale continuano ad operare nella pia illusione di rimanere a galla – con miliardi creati al computer che più virtuali di così non si possono immaginare.

E, a proposito di debito pubblico, fra i tanti annunci ridicolmente trionfalistici sulla (sognata) riduzione dello stesso, il beneamato presidente Renzi potrebbe una buona volta decidersi a rimuovere il segreto di Stato sul numero di secoli necessari ad azzerarlo … intanto che aspetta il chimerico Sì al prossimo Referendum. E, a seguire, la seconda edizione della Repubblica di Weimer.

23 maggio 2016                                                                Gianfranco Becchina

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